Tags: Energia, Governo, Fonti rinnovabili, Strategie energetiche

LA STRATEGIA ENERGETICA NAZIONALE

La Sen e l’Arte della Manutenzione dell’Idroelettrico

di: Alberto Cuppini
L’autore, animatore della Rete della Resistenza sui Crinali, critica aspramente l’obiettivo abnorme proposto per le rinnovabili elettriche al 2030 nella bozza della nuova Strategia energetica nazionale (Sen), che fa temere un’ulteriore ondata di costi in bolletta e un diluvio di pale su tutti i crinali dell’Appennino. A meno che non venga data la priorità negli investimenti, con un programma di manutenzione e ripotenziamento, al settore idroelettrico a bacino già esistente.


Anima mia, non aspirare alla decarbonizzazione integrale, ma esaurisci il campo del possibile"  (Pitiche 2017)

Con la pubblicazione della bozza della nuova Strategia energetica nazionale (Sen), che indica il percorso per ottemperare agli obiettivi europei al 2030, tutti i nostri timori si sono concretizzati: il governo italiano intende persino andare oltre gli obblighi – già soffocanti – imposti dall’Unione Europea.

L’occasione della presentazione è stata l’audizione congiunta del ministro dello Sviluppo Calenda e di quello dell’Ambiente Galletti davanti alle commissioni riunite Ambiente e Attività Produttive della Camera.

Concentriamo la nostra attenzione su un numero: è quel 48% – 50% di “Penetrazioni Rinnovabili” per il settore elettrico che appare in rosso in alto a destra a pagina 20 della bozza.

La nuova Sen decide dunque di privilegiare, nonostante le recenti dichiarazioni in senso opposto del Ministro Calenda, la produzione da rinnovabili (il 27% dei consumi complessivi, che peraltro è un obiettivo europeo NON vincolante per i singoli Stati dell’Unione) rispetto all’efficienza energetica. Peggio ancora, come si può ben notare dal grafico qui sopra, favorisce le FER elettriche piuttosto che il ben più promettente settore “riscaldamento – raffrescamento”.

Si conferma così in pieno, stanti queste priorità, la politica disastrosa fin qui praticata e, se tanto mi dà tanto, temo che nel testo definitivo saranno privilegiate, come nel recente passato, le fonti intermittenti (eolico e fotovoltaico).
Faccio presente come l’anno scorso si sia concretizzato in 14,4 miliardi di euro il totale degli incentivi per sussidiare la produzione di appena il 20% dell’energia elettrica consumata in Italia, come risulta (ma solo implicitamente) dal recente rapporto attività 2016 del GSE.  La produzione da rinnovabili elettriche nel 2016 è stata infatti di 105 TWh (corrispondente a circa un terzo dei consumi), ma la produzione incentivata è stata di “solo” 65,5 TWh (grande idroelettrico e geotermia “storica”, ad esempio, non sono incentivate …). 65,5 TWh su un consumo interno lordo del 2016 di 322 TWh rappresentano, appunto, il 20%.  E’ grave che il GSE non metta in rilievo questo dato.

Ora si tratterebbe, secondo la bozza, di incrementare la produzione di FER, ovviamente per il tramite di nuovi incentivi, di circa un altro 15% sui consumi interni lordi. Questa nuova spesa per incentivi si dovrà sommare a quella di 12 miliardi annui previsti per il 2017, che diminuirà molto lentamente fino al 2030 e che dovrà poi essere, a sua volta, rifinanziata quando pale e pannelli, ora funzionanti, smetteranno di produrre. Il rapporto incrementale sarà dunque pari a 3/4 (15% : 20%) dell’attuale produzione incentivata. Prendendo per buono il valore stimato per il 2017 (quando l’effetto di trascinamento sui costi dei certificati verdi si sarà esaurito) di 12 miliardi, con una facile proporzione si scopre che a questi 12 miliardi se ne dovranno aggiungere (a parità di sistemi incentivanti) altri 9 (20 : 12 = 15 : x cioè x = 9). Naturalmente il governo giura e spergiura che no, questa ulteriore emorragia sarà molto più contenuta. Ma anche chi, qualche anno fa, avesse detto che per produrre appena 105 Twh da rinnovabili, cedendo (come hanno fatto tutti i governi del nuovo secolo) alle pretese dei lobbysti, si sarebbe finito per spendere 14,4 miliardi in un anno per i soli incentivi, sarebbe passato per matto.

Non faremo mai sufficientemente notare che la spesa sostenuta nel 2016, sommata ai costi indotti dall’uso di rinnovabili non programmabili (dispacciamento, nuove reti eccetera), ha superato molto abbondantemente l’uno per cento (cioè 16 miliardi e spiccioli …) del PIL. Per avere un paragone dell’entità dell’insensato sforzo, è utile ricordare che l’oggetto del contendere della furibonda disputa per la correzione dei conti pubblici nazionali tra Unione Europea e governo italiano, che ha occupato negli ultimi mesi le prime pagine dei quotidiani italiani, riguardava la necessità della riduzione del deficit pubblico di 3,4 miliardi, pari allo 0,2% del PIL …

Se realizzato (come non credo), tale obiettivo per le FER elettriche al 2030 modificherà molto la percezione visiva (e non solo) dell’Italia. Si tratta ora di determinare concretamente, dopo la “consultazione pubblica” a cui sarà sottoposta la bozza, in che cosa consisterà questo “molto”. Lo si farà nelle prossime settimane, che saranno particolarmente intense. Soprattutto perché i soldi a disposizione sono pochi e gli interessi da compiacere sono molti. Nei prossimi anni, invece, si tratterà di limitare i danni peggiori sul territorio, finché un simile sistema elettrico non crollerà sotto il suo stesso peso. Non solo finanziario, come da noi illustrato trattando dell’incombente baratro energetico che ci attende perseverando in queste politiche “dissennate”, per usare la stessa scelta lessicale del ministro Calenda all'incontro "Going to G7 Energy", organizzato a Roma dal Centro Studi Americani il 15 marzo scorso. 

La situazione è grave: nella stessa audizione alla Camera, il ministro dello Sviluppo, circa la necessità della adozione in tempi rapidi del “capacity market”, ha affermato: “Il tutto perché dopo le dismissioni di impianti pregiati degli ultimi anni solo 47-53 GW installati (vedi il grafico, riportato qui sotto) contribuiscono all’adeguatezza del sistema. Per cui siamo a tappo e occorre varare al più presto il capacity market. Il gas prenderebbe quindi ancor più spazio”.

Questo grafico, sia detto per inciso, presenta un quadro della precaria sostenibilità del sistema elettrico nazionale (che sarà peggiorata dall’introduzione di altro potenziale elettrico non programmabile) persino più grave di quella da noi denunciata durante la recente crisi indotta dalla chiusura delle centrali nucleari francesi.

E’ rivelatore che la presentazione della nuova Sen, che rischia di aggravare i vincoli dell’economia italiana (che in questi giorni si conferma la meno dinamica dell’intera Unione nella crescita del PIL), sia stata pressoché ignorata dai principali media. Neppure il “Sole” ha enfatizzato l’evento, fatto salvo un articolo di Davide Tabarelli pubblicato il giorno seguente: “La debolezza di un sistema dipendente dall’import“, che condividiamo in larga parte e di cui riportiamo, qui di seguito, i passaggi più significativi:
“Le rinnovabili sono triplicate negli ultimi 20 anni … lo sforzo economico per le nuove rinnovabili ci pone ai primi posti al mondo, con la differenza che noi abbiamo un Pil in calo negli ultimi 10 anni”.
Il Professor Tabarelli potrebbe però anche dimostrare, calcolandone l’indice grazie alla capacità di analisi economica di Nomisma, la forte correlazione tra i due accadimenti, ed osare affermare pubblicamente che dal primo (“lo sforzo economico per le nuove rinnovabili”) deriva, in gran parte, il secondo (“un Pil in calo”).
Continua Tabarelli nel suo articolo: “Durante lo scorso inverno, i problemi al nucleare francese hanno evidenziato criticità, che potrebbero ripetersi e aggravare i problemi generati dall’intermittenza delle nuove rinnovabili. Anche di ciò si parla poco nella Sen”. E conclude: “Bello parlare di auto elettrica, di pompe di calore e di chiusura di centrali a carbone, senza menzionarne i costi che, invece, qualcuno pagherà”.

Dimostrato che perseverare con le FER elettriche oltre certi limiti già ampiamente superati è una forsennata fatica di Sisifo, cerchiamo almeno di proporre qualche soluzione per limitare i danni  che potrebbero derivare dalla nuova Sen.
Siccome, come dice Calenda, “l’orizzonte tecnologico non è chiaro per nulla”, si tratterebbe innanzi tutto di ritardare per quanto possibile ad una data prossima al 2030 l’installazione di nuovi impianti FER in attesa di una auspicabile evoluzione tecnologica, onde evitare che errori dovuti ad una fretta ingiustificata ipotechino  il futuro del Paese più di quanto non sia già stato fatto. Occorrerebbe poi privilegiare

a) le fonti programmabili rispetto a quelle intermittenti,
b) tra le intermittenti, il fotovoltaico rispetto all’eolico e
c) i piccoli impianti fotovoltaici diffusi rispetto alle allucinanti distese di pannelli che si sono rivelati sia scarsamente efficienti che costosissimi in termini di incentivi.

Ci rasserenano, almeno parzialmente, alcune  dichiarazioni  del Ministro rilasciate durante l’audizione parlamentare e riportate da Quotidiano Energia nell’articolo “Nuova Sen: Ecco i temi cardine” e soprattutto: “Calenda ha anche parlato della necessità di promuovere la pulizia degli invasi” (vedi pag. 21 della bozza: “… rilanciare gli investimenti, in particolare lo svuotamento e pulizia degli invasi”).  Infatti, tra le FER elettriche, il settore su cui sarebbe più conveniente investire da subito è quello delle grandi dighe idroelettriche, cominciando proprio con “lo svuotamento e pulizia degli invasi”. Non volendo ripetermi sui motivi di questa preferenza, rimando all’ articolo “Umile, preziosa e sprecata” pubblicato un paio di anni fa dall’Astrolabio.

Sono convinto che la priorità negli investimenti concessa ad un programma di manutenzione e ripotenziamento del settore idroelettrico a bacino già esistente basterebbe – essa sola – per soddisfare almeno la metà di quel 15% di ulteriore produzione da FER elettriche sui consumi prevista dalla nuova Sen per il 2030.
Questa priorità dovrebbe ora essere in cima ai programmi politici per la prossima legislatura a maggior ragione perché, in coincidenza con la crisi del nucleare francese (e con l’eccesso di sfruttamento dell’acqua dei bacini alpini per rimpiazzare l’elettricità che non arrivava più da Oltralpe), il coefficiente di invaso dell’ “aggregato Italia” risulta essere stato sotto ai minimi storici per almeno i primi due mesi dell’anno, come si evince dal grafico in basso a pag. 22 del rapporto mensile Terna sul sistema elettrico del 28 febbraio scorso.

Nella stessa pagina, si potrà notare come quel coefficiente sia stato particolarmente basso proprio nelle dighe dell’arco alpino. Questa emergenza del sistema delle dighe alpine, tra l’altro, ha comportato imprevedibili emergenze ecologiche, come ci ha informato Nicola Lugaresi nell’articolo “Una fretta pericolosa” sul Corriere del Trentino del 4 marzo scorso: addirittura “la riduzione del deflusso minimo vitale, nel quantitativo definito dalla Provincia di Trento”. Come spiega lo stesso Lugaresi nell’articolo: “se si deve certamente tenere conto delle esigenze produttive ed energetiche, l’obiettivo principale del deflusso minimo vitale è però quello di evitare che lo sfruttamento incida in modo irreparabile, o comunque troppo invasivo, sui valori ambientali dei corsi d’acqua”.
Il problema, causato dalla sciatteria nella programmazione e nella manutenzione degli impianti associata ad una crisi imprevista all’estero, non si è risolto ancora, se è vero che poche settimane fa la "Stampa" pubblicava un articolo dal titolo “La guerra dell’acqua: il Trentino chiude i rubinetti al Veneto“.

Massicci investimenti per incrementare la portata delle dighe sono perciò improcrastinabili, ma temiamo che non se ne farà niente perché, a differenza delle FER elettriche, l’arte della manutenzione non gode di buona stampa. E neppure di incentivi (citiamo ancora le parole Calenda all'incontro di Roma) "con tassi di ritorno che non sono umani e che non hanno niente da vedere con la realtà"...

La conclusione è persino più desolante. Come ha dichiarato alla "Stampa" pochi giorni fa Aldo Pizzuto, direttore del dipartimento Fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare dell’ENEA: “Senza una fonte nucleare non è fattibile raggiungere i risultati cercati in tema di sostenibilità, dato che le rinnovabili, da sole, non bastano”. Questo significa che la retorica climatista, dopo avere deturpato i crinali appenninici italiani con insulse pale eoliche, sta aprendo la strada, non appena gli italiani sbatteranno il naso contro l’insostenibilità del sistema elettrico basato su fonti non programmabili, al secondo avvento del nucleare, che, come noto, non induce cambiamenti climatici. Ma attenzione: non il nucleare a fusione (cioè senza scorie radioattive) di cui si favoleggia (e che è ancora nei libri di fantascienza, come i viaggi interstellari e come i sistemi di accumulo per grandi quantità di elettricità), ma il nucleare a fissione di terza generazione, cioè quello della centrale di Flamanville, la cui tecnologia il governo italiano dovrà pagare a peso d’oro, sopportando un prezzo dell’energia elettrica del tutto fuori mercato per 25 anni, come ha recentemente scelto di fare il governo britannico per la centrale di Hinkley Point.

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